Sciolti da ogni rito i giovani e liberi propagatori si erano, per così dire, approfondati nell'onda popolare. D'ogni cosa essi fecero arma morale a confortare la moltitudine, conscia degli affetti suoi, ma inconscia della sua forza. Essi tradussero in volgare alle smenbrate provincie l'arcano dell'unità. Adoperavano i fogli clandestini e i pubblici, i canti, gli evviva a Pio IX, il sasso di balilla, le catene di Pisa. Adoperavano i panni funebri delle chiese e i panni gai delle veglie festive; assortirono in tricolore le rose e le camelie, gli ombrelli e le lanterne; trassero fuori il cappello calabrese e il giustacuore di velluto, il vessillo della nazione e quello delle sue cento città. Era quella una lingua nuova che parlava a tutte le genti d'Italia più alto e chiaro che l'altra lingua in cinque secoli non avesse parlato. Essi accesero di vetta in vetta lungo l'Appennino le fiamme del dicembre; essi congregarono sulla fossa di Ferruccio i montanari della Toscana; essi domarono coi fieri applausi dei trasteverini le ritrose voglie del pontefice. Essi rivelarono il popolo al popolo, l'Italia all'Italia; gettarono sul viso al barbaro armato il guanto della nazione inerme e impavida; trassero la plebe che aveva taciuto trant'anni, a dire ad una voce: l'ora è venuta; a svellere con l'erculea mano i graniti delle vie; a togliere in poche ore ai vecchi generali ogni senno e ogni coraggio. Il popolo poteva fare: voleva fare; ma senz'essi non aveva fatto. Per essi ora è certo che l'Italia sa e l'Italia può.
Carlo Cattaneo
(da "Considerazioni sulle cose d'Italia nel 1848)
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